Manish Pandey, quando e perchè avete deciso di fare un film su Ayrton Senna? “Per me, questo risale a ottobre 2004. Il produttore James Gay-Rees, ispirato da ricordi di gioventù di suo padre e dagli articoli dei giornali dell’epoca, decise di fare un film su Senna. Aveva un contratto per tre film con la Working Title, dove lavorava mia moglie, che decise di farmi incontrare James sapendo che sono un grande appassionato di Formula 1 e un devoto di Senna. Parlammo nei suoi uffici per due ore e sentimmo da subito un grande legame.” (continua...)
Era il primo progetto con lui? “Sì. E sarà anche l’ultimo, non lavorerò mai più con lui (ride).”
E qual è la sua passione per la Formula 1? “Beh, mi sono perso solo sei gare da quando avevo tredici anni e solo due con Senna. Lo adoravo, sono una piccola enciclopedia su Senna e sulla Formula 1. Per me, la grande sfida di questa storia era di spiegare davvero la vita di Senna, che per il 90% delle persone è solo ‘il pilota che è morto’. Lui era una persona speciale. Un mio caro amico lo riassunse dicendo che non guidava solo su una pista di asfalto, ma su una pista spirituale. Il suo obiettivo era di battere se stesso e lo faceva ogni settimana. Veniva davvero da un altro mondo. Mostrare davvero il suo lato umano e, in un certo senso, divino, catturare questo in un film senza essere buffi o sentimentali, è ciò che abbiamo voluto ottenere.”
E’ un argomento non così comune per un film, non crede? “Esatto. Ma con lui, è impossibile fare un film che non parli del suo incredibile viaggio spirituale. A suo modo, ammise di aver visto dio quando divenne campione del mondo per la prima volta in Giappone, tagliando il traguardo. Questo non si può ignorare, ma bisogna farlo in modo delicato e nel giusto contesto. Solo così si capisce che non era matto, ma aveva un profondissimo credo.”
Ma è solo questo lato spirituale che lo rendeva speciale? “In puri termini di guida, tra i piloti dei miei tempi fu quello più talentuoso e più veloce. In più, era il più tecnicamente perfetto, perchè lavorava molto sodo. Era incredibilmente intelligente e aveva un fantastico carisma. Lo descrivevano come ‘la grande bestia del paddock’. Era il pilota che tutti sapevano di dover battere. Anche Prost. Ed è questo che lo rese eccezionale: le sue incredibili qualità, come pilota e come uomo. Era un essere umano molto gentile, molto timido, molto introspettivo: e questo è un cocktail irresistibile.”
Il personaggio perfetto per un film. “Penso di sì. La cosa strana è: se io avessi inventato tutta questa storia, la gente non ci crederebbe. A volte la realtà è più potente della fantasia. Ci accusano di aver reso Prost il cattivo del film, ma non lo è. Prost era il suo rivale. Se c’è un cattivo nel film, è il denaro e la politica dello sport, che è simboleggiata da Balestre. Di nuovo, un personaggio che non si poteva inventare così bene: un grosso signore francese, che indossava gli occhiali scuri, la camicia e la giacca nere, che andava in giro con un braccialetto…”
Ma lei non incontrò mai Senna? “Purtroppo no, anche se vidi diverse gare dal vivo e una volta arrivai a tre metri da lui, quando finì la benzina.”
Invece come fu il primo incontro con la famiglia Senna? “Uno dei giorni più speciali della mia vita. Ci vollero nove mesi per fissarlo, James e io volammo a San Paolo e avevo preparato una presentazione di 40 minuti della storia sul mio computer, con uno slideshow e della musica. Mia moglie mi disse: ‘Qualunque cosa accada, non piangere quando farai la presentazione’, perchè l’avevo provata tante volte e avevo sempre pianto. Quando arrivammo, stranamente ero molto calmo. C’erano sette persone nella stanza: sua sorella Viviane, sua nipote Bianca, James, io e altre tre persone dell’Istituto Senna. Viviane si mise a piangere e io dovetti chiederle di non farlo, perchè altrimenti avrei cominciato a piangere anch’io e non avremmo finito. Dopo 40 minuti tutti nella stanza piangevano, tranne me e Viviane si alzo, mi abbracciò e mi disse: ‘Tu conoscevi davvero mio fratello’. A quel punto capimmo che saremmo riusciti a fare questo film. Un’altra bellissima cosa che capitò dopo fu l’invito nella sala dove la mamma di Ayrton teneva i suoi trofei. Mi disse che il programma prevedeva rigorosamente cinque minuti e ci trascorse 45 minuti insieme a me.”
Immagino che di trofei ce ne fossero molti… “Sì, ma poi lei è un’enciclopedia. E’ una donna incredibile e per ogni trofeo che sollevava mi chiedeva di ricordare la relativa gara e condivideva i suoi ricordi con me. Fu davvero gioioso e incredibile.”
Ha parlato di Prost e mi interessa sapere cosa pensa del suo personaggio, da sceneggiatore. “E’ il rivale perfetto. Senna era introspettivo, introverso, parlava solo in pista attraverso la sua pura velocità, non era politico, ma pensava solo a guidare la vettura con intensità. Alain era più vecchio, di una generazione appena precedente, ma comunque è una delle persone più intense che abbia mai incontrato in vita mia. I piloti non sono normali esseri umani: hanno un potere di concentrazione che, in un certo senso, nemmeno gli scacchisti hanno, perchè se la perdono rischiano la vita. In quattro ore di intervista, seduto sotto un riflettore da 400 W, non smise mai di parlare se non quando dovemmo cambiare la memoria della macchina da presa. Ha una memoria enciclopedica per le corse, gli incidenti. Occasionalmente, doveva pensare, ma non più di due secondi. Alain era un tipo diverso da Senna, lo chiamavano ‘il Professore’ perchè era intelligente e vinceva le gare anche fuori pista, non solo tecnicamente, ma anche cercando di essere il numero uno del team, facendo lavorare i meccanici attorno a lui e costruire una vettura su misura per lui. Penso che per Senna fu una sfida durissima. Arrivato alla McLaren, il team di Alain, con cui aveva vinto due titoli, nel primo anno guidò una vettura che non era costruita per le sue specifiche, ma per quelle di Alain. E vinse, grazie alla sua velocità. Ma il genio di Alain fu quello di riprendersi il titolo l’anno successivo. Non voglio dire se quello che fece a Suzuka ‘89 fu giusto o sbagliato, ma fu comunque incredibile che riuscì a recuperare. Senna gli era superiore, ma non penso che ci fosse tanto divario tra di loro.”
Del resto, stiamo parlando forse della generazione di piloti migliore di sempre: c’erano Mansell, Piquet, Rosberg… “Quando Senna era sulla griglia di Monaco ‘84, nelle prime file c’erano Prost, Lauda, Piquet, Mansell, Rosberg, Alboreto… Penso di aver contato sei campioni o futuri tali, più altri piloti che vinsero gare. E’ indescrivibile. Ho incontrato alcuni piloti di GP2 la scorsa settimana al festival di Sundance e, vedendo il film, mi hanno detto di non credere a come fosse possibile guidare quelle vetture così potenti, da 1400 CV per 500 kg, senza traction control o servosterzo o aiuti alla guida. Il coraggio di questi ragazzi era incredibile.”
Ha parlato del Giappone ‘89 e anche dell’anno successivo, ovviamente. Furono questi, secondo lei, gli episodi chiave della storia? “Il film è incentrato in modo che lo sport diventi una metafora per la vita. Bisognava prendere gli elementi sportivi più importanti e trovare la storia di vita che ci stava alle spalle. Monaco ‘84 è la nostra prima gara e questa è una grande storia di politica: Prost riesce a far fermare la corsa e dunque la vince. Poi vediamo Senna vincere in Portogallo, un momento importante per la sua crescita, ma la gara successiva che approfondiamo è Monaco ‘88, dove per la prima volta Senna descrive una diversa atmosfera mentre è al volante, dove si capisce che la guida, per lui, era molto di più che girare e vincere. E quella è una gara che non vinse, dove ci si rende conto che comunque era solo un uomo. Poi a Suzuka ‘88 sente di aver visto dio, ha un’esperienza trascendente, e questo è il completamento del suo ciclo di crescita. Suzuka ‘89 è di nuovo politica: Senna pensa che Prost l’abbia sbattuto fuori, i piloti sono divisi al 50% sulla colpa, ma persino Alain ha detto che tutte le polemiche successive furono terribili e immeritate. Suzuka ‘90 è la sua risposta: è comunque un essere umano, non è orgoglioso di ciò che fa, ma cerca di giustificarsi con Jackie Stewart, che si arrabbia molto. Il successivo blocco è Brasile ‘91, in cui si capisce come vincere a casa sua significasse tutto: nessun altro pilota avrebbe potuto vincere quella gara, ma lui ce la fece. E poi abbiamo Imola. Questi sono i momenti chiave del film.”
Riesce a immaginare qualche altro pilota di Formula 1 a cui possa essere dedicato un film del genere? “(ride) Non di quelli moderni, devo essere onesto. Ma non è colpa loro. Negli anni ‘80-’90 potevano essere un po’ più rilassati, dimostrare il loro carattere. Senna fu un prodotto degli anni ‘80 e nei ‘90 era già grande. Nessuno, nè il team nè gli sponsor, poteva dirgli di tacere o di non comportarsi in un certo modo. Ora i piloti sono ancora una parte importante dell’equazione, ma nello schema generale i team spendono centinaia di milioni di dollari all’anno. Anche se penso che Alonso sia il pilota migliore, il più completo, la differenza che fa nell’equazione è probabilmente minore, diciamo l’ultimo 2%. Mettendo su una buona Ferrari Vettel o Hamilton, probabilmente vincerebbero lo stesso, sono più intercambiabili. All’epoca, con una telemetria primitiva, mettere a punto la vettura richiedeva un certo genio. Piquet, secondo me, vinse tante volte perchè era un grande talento tecnico. Non doveva essere il pilota più veloce, gli bastava essere il più furbo. Penso che oggi non sia più così. E anche pensando al carisma, forse Alonso ce l’ha, ma personalmente non l’ho visto. La combinazione di intelligenza, abilità innata e spiritualità… non l’ho più vista.”
Da indiano, aspetta con impazienza il primo Gran Premio d’India? “Sì. Vedremo come sarà il circuito, spero che ci saranno dei sorpassi. In India, l’uomo medio non potrà mai avvicinarsi al Gran Premio per via del prezzo dei biglietti, ma tra l’elite l’automobilismo è uno sport molto seguito. Sono molto intrigato. Spero che Bernie mi darà un pass…”