Ragazzi, non so se conoscete questa intervista di Danilo Castellarin a Walter Rohrl apparsa nell'aprile del 2006 su Auto d'Epoca:
L’anno prossimo lei compirà sessant’anni, un traguardo importante nella vita di un uomo. Voltandosi indietro, quali sono i ricordi più importanti, belli o brutti che siano?
Ce ne sono due che ogni tanto affiorano nella memoria. Il primo mi vede ancora bambinetto di sei anni. Siamo nel 1953 e sono nel cortile dell’azienda di mio padre Michel, che si occupava di lavorazione della pietra. In un angolo è parcheggiata la grossa Fiat 1400 di papà che è in ufficio con un cliente. Io apro la porta, salgo sull’auto e mi siedo in equilibrio sul bordo del divanetto anteriore. Poi ripasso con la mente tutti i movimenti che avevo visto fare decine di volte. Giro la chiavetta, tiro il pulsante d’accensione, metto in moto. Schiaccio il pedale della frizione e tiro verso di me la grossa leva del cambio. Poi la spingo in su, verso lo specchietto, accelero piano piano e lascio con delicatezza la frizione, miracolo, la macchina si muove.
E suo padre non si accorge di nulla?
No, si accorge di tutto perché esce dall’ufficio con il cliente e vede la 1400 che gira piano. Io accosto, metto la frizione, freno, giro la chiavetta e mio padre, invece di sgridarmi, mi dice ‘Bravo Walter, sai già guidare’. Fui molto orgoglioso di quel riconoscimento.
E il secondo ricordo?
Riguarda Michael, il mio fratello più grande, che aveva lo stesso nome di papà. Negli anni Sessanta aveva una Porsche e mi portava a sciare con la sua ragazza. Lo ammiravo moltissimo.
Che cosa accadde?
Una sera d’estate del 1965 Michael ebbe un grave incidente e si uccise appena fuori Regensburg. In una lunga curva che piegava a destra si trovò davanti un anziano con una piccola Goggomobil, appena 400 cc. Lui si buttò fuori, sulla sinistra, per tentare di superarla, ma la Porsche sbandò e finì contro un camion che proveniva in senso opposto. Michael morì subito dopo il ricovero in ospedale.
Oggi, dopo molti anni dalle sue straordinarie vittorie, la folla l’accoglie sempre con molto affetto e calore. Che effetto le fa?
Conoscono più loro la mia carriera agonistica, anche nelle minime cose, di quanto la conosca io stesso. Questo abbraccio tenero di ricordi, di entusiasmo e affetto mi tocca il cuore e mi scalda dentro. Sono davvero grato a tutti gli appassionati e a volte mi sembra perfino di non meritare un’accoglienza così festosa perché mi sento un uomo maledettamente normale, per giunta da vent’anni non corro più..
Per lei i rally sono stati anche scuola di vita?
Certamente sì. I rally mi hanno insegnato la disciplina perché a un certo punto della mia gioventù mi sono detto ‘Voglio diventare il numero uno dei rally mondiali’. E per arrivare a questo risultato ho dovuto sacrificare tutto il resto, osservando una ferrea disciplina. Ho capito fin dalle prime gare che il successo non cadeva da cielo per magia ma invece il risultato di una serie di elementi complessi: uno di questi era il rigore.
Che cosa provava quando, nonostante l’impegno, i direttori sportivi penalizzavano il suo risultato per, chiamiamole così, esigenze di scuderia?
Quando ho corso per la Fiat ho avuto una grande fortuna perché ancora non capivo una parola d’italiano e dunque, anche se ci fossero degli intrighi, non li avrei capiti.
Sicuro di ricordare bene? A me risulta che, a volte, la convivenza con Markku Alen non fu sempre stata serafica….
Alla Fiat arrivai quasi per caso al Rally San Martino di Castrozza 1977. Poi rimasi per lungo tempo conquistando il mio primo titolo mondiale (1980), dunque non posso che serbare un ottimo ricordo.
Tuttavia...
Tuttavia a volte nei rally non sempre vince il pilota più veloce perché, effettivamente, la direzione sportiva poteva decidere che in un certo anno doveva vincere un certo pilota e questo per la strategia del gruppo.
E gli altri?
Dovevano aiutare.
Lei lo ha sempre fatto?
Beh, Giorgio Pianta a volte mi diceva che Markku Alen spingeva per avere i motori più potenti. Ma mi trovavo bene con Daniele Audetto, il nostro ds, perché con lui il rapporto era sincero e diretto. Non fu la stessa cosa, almeno all’inizio, con Cesare Fiorio.
Anche lei era un pilota molto sincero. Ricordo che al Rally di Sanremo 1978, lei uscì di strada con la 131 Abarth, mentre era davanti alla Stratos di Alen, e atterrò sul tetto di una casa. Audetto le propose una via d’uscita diplomatica, come aveva fatto Mauro Forghieri al Fuji due anni prima con Lauda.
Daniele mi suggerì di raccontare ai giornalisti che l’uscita di strada era dipesa dalla sabbia sulla curva. Io lo guardai e gli dissi che per pretendere il rigore dagli altri bisognava essere rigorosi prima di tutto con se stessi. E dissi ai giornalisti di tutto il mondo che io avevo osato troppo, che io avevo guidato male, che io avevo sbagliato e dunque, io, solo io, mi ero giocato la gara, dannazione!
Molto tedesco, devo dire
Anche al Montecarlo 1979 cercai di essere coerente e tedesco, come dice lei. Al via dell’ultima speciale c’era Waldegard in testa su Ford, a sei secondi Darniche su Stratos e ad altri sei secondi c’ero io su Fiat 131 Abarth. Pianta mi viene vicino e mi dice ‘Dai Walter, dobbiamo rischiare il tutto per tutto, meglio togliere il limitatore bloccato a 8000 giri e giocare l’ultima chance’. Io lo guardo dritto negli occhi e gli dico ‘Non farlo, il motore esplode, non può reggere’. I meccanici obbediscono a Pianta e tolgono il limitatore. Dopo cinque chilometri la 131 si ferma con il motore in briciole.
Comunque l’anno dopo vinse lei, battendo tutti i suoi compagni dello squadrone Fiat con piloti del calibro di Andruet, Waldegard, Alen
Ricordo che alla vigilia di Natale Audetto insisteva per restare al Turini e provare le nuove Pirelli. Io gli dissi ‘Daniele, tu resta con chi vuoi ma io il Natale lo trascorro a casa mia, a Regensburg’. Lui mi guardò pallido e allucinato e io aggiungi ‘Tanto questo Montecarlo, prove o non prove, lo vinco io’. E così fu.
Due anni dopo, nel 1982, con la Opel Ascona 400, sul Col de la Madone, rifilò addirittura mezzo minuto di distacco all’Audi Integrale di Mikkola
Audi teneva molto a quella vittoria. Evidentemente non poteva contare sul pilota migliore….
Perché non ha mai amato il Safari africano?
Poichè temevo gli insetti e le malattie tropicali e poi perché ritengo che quelle marce lunghissime, estenuanti, non c’entravano molto con un vero rally di velocità. Il Safari non era un rally ma una maratona, un raid, insomma un’altra cosa. In una edizione io e Geistorfer restammo letteralmente prigionieri delle sabbie mobili e della melma. I meccanici urlavano, ci imploravano di venire fuori. Ma io tenni le porte ben chiuse mentre l’auto sprofondava lentamente e dissi alla radio che non sarei mai uscito dall’auto se prima non mi tiravano fuori da quella *****a.
Un’altra avventura le capitò al Rally Costa d’Avorio 1982
Stavamo rimontando alla grande sull’Audi di Michelle Mouton al comando della gara, quando, nel bel mezzo di una marcia di 600 km in una foresta, troviamo la strada sbarrata da un tronco. Freno di colpo e il motore si spegne. Un guaio perché il motorino di avviamento era k.o. Allora spingiamo l’Opel e in qualche modo riusciamo a riavviarla, in retromarcia. Ma restava il tronco da superare.
In che modo?
Semplice. Pensai che se Christian Geistdorfer, il mio navigatore, fosse saltato sul tronco proprio nel momento in cui ci passavo sopra con la Opel, dopo essermi lanciato con una breve rincorsa, forse l’ostacolo si sarebbe un po’ appiattito verso il terreno fangoso, abbassando la barriera. Concordammo la manovra e partii con Christian appostato sull’albero. Ma le cose andarono diversamente. Non avevamo previsto che il peso dell’Ascona avrebbe potuto trasformare il tronco in una catapulta. Cosa che realmente accadde, sparando Christian a tre metri di altezza, fortunatamente senza conseguenze….
Nel 1983, col titolo di campione del mondo '82 in tasca, lei tornò a Torino, chiamato da Cesare Fiorio a guidare la Lancia Rally 037 a trazione posteriore
Fu una splendida stagione con tre vittorie, Montecarlo, Grecia e Nuova Zelanda, ma soprattutto senza nessuna ambizione di titolo mondiale, la qual cosa mi permise di correre in modo rilassato. Unico neo, il Sanremo, dove Fiorio convinse i commissari a rifilarmi due minuti di penalità per togliermi ogni velleità di vittoria contro Alen, vincitore designato. Ecco, non c’era bisogno di fare così. Io le consegne le avrei rispettate lo stesso, anche se il più veloce ero io.
Fu per questo che l’anno dopo disse ‘Signori, è stato bello grazie, ma io me ne vado all’Audi’?
L’Audi era una Casa tedesca e voleva un bravo pilota tedesco. Venne a chiedermelo il mio vecchio amico Dieter Scharnagl, capo della comunicazione del gruppo. Mi disse: ‘In azienda ci sono ventottomila dipendenti che lavorano per la vittoria e tu, che sei bavarese e sei pure il miglior pilota da rally del mondo, guidi per la Lancia, così non va’. Potevo tirarmi indietro?
Certamente no. Però non fu cosa facile adattarsi alla guida della trazione integrale Audi. O sbaglio?
Effettivamente ne distrussi qualcuna prima di prenderci la mano. Poi capii, osservando Stig Blomqvist, che bisognava tenere il piede sinistro ben piantato sul pedale del freno e modulare la pressione del destro sull’acceleratore.
Imparò bene perché nel 1984 portò all’Audi la prima vittoria al Rally di Montecarlo, la quarta per lei, e sempre con auto diverse, un record
Purtroppo non ho avuto fortuna con il direttore sportivo Roland Gumpert che non mi dava le stesse gomme che dava a Blomqvist e Mikkola. E’ paradossale che i problemi maggiori della mia carriera li abbia avuti con una Casa tedesca. Probabilmente volevano farmi pagare il conto dei campionati del mondo che avevo vinto per la concorrenza negli anni precedenti. A Montecarlo 1984 partii con il numero 1, Blomqvist con il 7, Mikkola con il 12, mi pare. Mi assicurarono che avevamo tutti e tre le stesse gomme. Invece le mie erano diverse da quelle dei miei due compagni, solo che io non lo potevo sapere perché loro due partivano dopo di me.
Risultato?
Nelle prime due prove speciali del ‘Monte’ beccai distacchi abissali: 38 secondi alla prima PS e un minuto e mezzo nella seconda. Ero letteralmente a terra, molto demoralizzato. Ma fui fortunato perché un mio caro amico mi venne a trovare al punto di assistenza e mi disse che mi aveva visto passare in prova e si era entusiasmato. ‘Sei sempre il più grande Walter’. Io ripresi fiducia e affrontai un meccanico Audi. Andai da lui perché mi sembrava più sincero degli altri e gli dissi ‘Voglio la verità’. E lui dopo molte titubanze mi raccontò che Gumpert aveva ordinato di montare sulle altre Audi ufficiali, che partivano dopo di me, pneumatici diversi da quello che avevano montato sulla mia. Lo facevano non appena ero partito, così non potevo neppure accorgermene, avendo il numero 1.
Chi volevano favorire?
Credo soprattutto non volessero favorire me.
Come andò a finire?
Feci una scenata magistrale. Andai dai dirigenti Audi e dissi chiaramente che del titolo non mi importava granchè e quello potevano farlo vincere a chi volevano, ma il Monte lo volevo io.
E loro?
Montarono le gomme giuste e in ogni prova speciale iniziai a guadagnare prima un minuto e poi un minuto e mezzo sui miei diretti avversari, a parità di macchina e di gomme. La gara la vinsi io. E serbo ancora oggi molta amarezza per quella condotta davvero poco trasparente. A fine anno, il titolo marche andò all’Audi e Blomqvist fu campione del mondo.
Quando capitano episodi del genere è possibile vivere serenamente con la squadra per la quale di corre rischiando la vita?
E’ difficile. Ma fa parte della freddezza che un vero professionista non deve perdere mai. Credo capiti in tutti i lavori. Certamente il rally visto dalle curve, cioè da parte degli spettatori, è più pulito e più magico di quanto a volte non sia dalla parte del pilota che, per una ragione o per l’altra, deve subire ordini e adattarsi a circostanze imposte dall’alto.
E con Blomqvist, restò separato in casa oppure ricucì la ferita?
Ai miei compagni Blomqvist e Mikkola io non ho mai lesinato una sincera collaborazione. A Sanremo, per esempio, c’era un solo treno di gomme buone ed io, pur essendo in testa, lo cedetti a lui, a Stig, anche se avevamo concordato prima di partire che le gomme migliori sarebbero spettate a chi conduceva la gara. ‘Per me è lo stesso’, dissi io. ‘Lui è il campione designato, dategli pure le gomme migliori’, dissi ai meccanici. E riuscii comunque a rifilargli un minuto. Insomma, la mia rabbia l’ho trasformata in energia.
Che cosa provava quando vedeva morire in gara qualche amico?
Mi ricordo quando morì Attilio Bettega. Mi ritrovai a pensare seriamente ai rischi delle gare su auto esasperate come le Gruppo B. Conclusi che l’unica strada per venirne fuori era restarci dentro. Affrontare la nuova sfida con grande professionalità, metodo, preparazione e cercando di avere una condotta di gara e una preparazione sportiva che contribuisse a contenere quanto più possibile i rischi e le conseguenze negative di ogni mia azione.
Molto scientifico e razionale
Non si vince mai solo con il cuore. Nemmeno si sopravvive.
E’ mai stato condizionato dalla folla che sfiorava la sua macchina che lei era in controsterzo? Ha mai alzato il piede pensando alla carneficina che avrebbe potuto provocare?
Il primo anno, davanti al muro di folla, effettivamente alzavo il piede. E beccavo molti secondi dai miei avversari. Una notte il DS Opel si avvicinò e mi disse ‘Walter che succede?’. Io lo guardai negli occhi e risposi che non potevo mettere a repentaglio la vita di tanti ragazzi. Lui mi chiuse la bocca con la mano e replicò che ero pagato per vincere e non per preoccuparmi degli idioti che c’erano in giro. ‘La vita è loro’, disse, ‘Se la giochino come meglio credono’.
Quando è stato il momento preciso in cui lei ha detto a se stesso ‘Voglio diventare campione del mondo’?
All’inizio della carriera il titolo non esisteva ancora. Ma devo onestamente ammettere che a me è sempre importata soprattutto una gara, molto più del titolo, il Rally di Montecarlo.
Quali sono le qualità più importanti per un rallyman?
Freddezza per calcolare esattamente il rischio, sacrificio per resistere alla fatica, prudenza per difendere la propria vita, paura per non superare mai il limite e motivazione per dare il meglio di se stessi. Vede, molte volte correre in auto può dare sensazioni travolgenti e eccitanti, paragonabili a una trance, che impedisce di restare lucidi. Il rumore del motore, i colori, il senso di velocità, la competizione, l’impegno di una intera squadra che lavora per te, ecco tutto questo può intaccare la tua lucidità analitica, la tua capacità di autodeterminazione.
Con quali conseguenze?
Questo è il rischio maggiore per una pilota da corsa: perdere il completo controllo di se stessi. Intendiamoci, si può vincere anche così, credendo sempre di poter andare oltre, di venirne fuori, in qualche modo. E’ capitato nei rally e anche in Formula 1. Ma è un modo di correre e di vincere dannatamente rischioso.
Che cosa hanno perduto i rally moderni rispetto a quelli della sua stagione sportiva?
Quattro cose: la neve, la notte, la lunghezza e la fatica. Oggi sono gare sprint. Io ho guidato anche per quaranta ore consecutive. Inoltre venti o trenta anni fa le auto non erano affidabili come quelle di oggi. E in quelle gare massacranti bisognava preoccuparsi sempre dell’auto per portarla a casa.
Quali piloti ricorda con maggiore affetto?
Markku Alen, Sandro Munari e Attilio Bettega.