Colgo l'occasione data dall'amico AmanteMcLaren, che nel topic su Bellof ha citato un racconto recente dedicato a Guy Moll, per trascriverlo interamente. Tratto dal libro di racconti "L'Angelo di Coppi" di Ugo Riccarelli (Mondadori 2001).
Le traiettorie della vita
Nell’autunno del 1933 Jerome Blanchot incontrò Enzo Ferrari sul circuito di Pescara. Si strinsero la mano e parlarono a lungo di auto e di piloti. Erano tempi di strade polverose, di macchine imponenti e robuste come armadi. Dai motori, sculture nere, quasi blocchi d’acciaio tagliati con la scure, si alzavano rumori che nascondevano decine di cavalli di potere. Incredibile pensare che così imponenti lamiere potessero spostare aria a sufficienza per trascinarsi veloci sopra ruote enormi e dure come il marmo.
La Scuderia Ferrari era nata da poco, poco più di un garage a Modena, in viale Trento e Trieste, con quattro Alfa Romeo rosse a girare per le piste in cerca di gloria. Ferrari aveva smesso di guidare, per il futuro di suo figlio Dino che futuro non ne avrebbe avuto molto, e aveva preso con sé i migliori assi del tempo, venuti via dall’Alfa quando la casa madre aveva chiuso la porta alle corse: Nuvolari e Varzi, basterebbero questi nomi a spiegare perché la gente cominciò subito ad amare il nome scritto sotto il cavallino di Baracca.
Forse fu anche per questo che Blanchot, quel pomeriggio a Pescara, parlò al modenese di un pilota che era ancora un ragazzo ma che, così disse a Ferrari, “aveva un piede come una bomba eppure passava sulla pista con il pennello di un pittore”. Il padre era un francese andato in Algeria e la madre una donna spagnola, molto affascinante. Da questa ibridazione era nato un figlio che aveva respirato in Africa e a Parigi, bevuto latte spagnolo e visto i tramonti del deserto. Bastò una stretta di mano, bastò un momento.
Qualche settimana dopo, in viale Trento, Ferrari si trovò davanti un ragazzo, foulard al collo e giacca di pelle. Teneva la sigaretta in mano come fosse un lapis, e questo a Ferrari non parve cosa educata. Ma aveva modi gentili e fieri allo stesso tempo, e non troppe parole, come si conviene tra chi deve affidarti una macchina e chi la deve guidare. Non si dissero molto, perché anche il modenese era misurato nel parlare e probabilmente onorò la stretta di mano con Blanchot soltanto per rispetto alla competenza di un uomo che stimava. Il ragazzo, lui si chiamava Guy Moll e gli era sconosciuto, ma si prese un’Alfa di Ferrari e andò a Montecarlo, il 2 di aprile del ’34, per la corsa.
La pista non era cosa facile, come non lo è neanche oggi. Erano tre chilometri e centottanta di saliscendi, come una giostra, ma senza le chicane che hanno disegnato dopo. I piloti infilavano le stradine con i bolidi da settecentocinquanta chili, con enormi volanti da girar con forza. Non le diavolerie elettroniche di oggi, roba da maghi. Piuttosto leve e martelli, schizzi di olio e grasso da spalmare, occhiali enormi da aeroplano sopra cuffiette che poco potevano riparare.
Guy non fece grandi cose nelle prove, ma aveva gente famosa davanti, vecchi volponi, e lui invece era appena un novellino. C’era il conte Trossi, altro Ferrari, che fece il tempo sul giro, e Chiron, enfant du pays. Varzi, già mito, e Dreyfus sulla Bugatti messo accanto a Trossi sulla prima linea. Sei Alfa Romeo, cinque Maserati e quattro Bugatti, questo c’era sulla pista e partirono per fare cento giri, mica uno scherzo. Su quell’ottovolante, rasenti le case, ingoiavano lo spazio come niente, schiacciavano il tempo appoggiati sopra sedili enormi, protetti solo dal vento. Vento e fatica.
Dreyfus prese presto la testa e restò davanti a lungo, incalzato da Chiron che si faceva sotto. Al muretto, Ferrari cominciò a tenere d’occhio il ragazzo vedendolo un po’ incerto, certamente all’inizio ebbe anche paura. A Montecarlo ci vuole coraggio e assieme al coraggio anche la forza perché dopo un’ora di corsa non senti più gambe e mani, non esiste più niente, ti avvolgono solo il rumore e lo schiaffo dell’aria e, specialmente se hai la faccia di un ragazzo, la velocità si diverte a massacrarti.
Ma dopo i primi giri si accorse che Guy si rinfrancava, che il rumore dell’Alfa era più pieno, come quando uno ride contento per una bella giornata. Gli sembrò di sentirlo uscire da un boato salito dal fondo del rettifilo. Così si mosse dal box e andò laggiù, al gasometro, alla curva stretta, e fu allora che gli si schiantò il sorriso, quando vide il suo pilota arrivare come un folle, con la gente in tribuna che gridava aspettando l’uscita certa dalla strada, aspettando il botto e l’esplosione. Anche Ferrari ebbe quella sensazione, che fosse spacciato, per il muso puntato all’interno, per il rombo troppo alto del motore senza stridio di freni a toccar le ruote.
Per istinto andò con un occhio al viso di Guy, che invece gli sembrò tranquillo, anzi colse un sorriso sul volto inclinato a seguire la strada. Vide la macchina sbandare, fare la barba al palo interno di quella curva tremenda e poi presentarsi dritta e in posizione adatta a ingoiarsi velocemente il rettilineo.
Fa come Nuvolari, pensò Ferrari, fa come Tazio, quell’inconfondibile scivolata che solo lui sa fare e che è coraggio, sfida e disinvoltura, il segno di chi ha dentro la classe di un artista. Tornò eccitato all’arrivo per assistere alla gara, sicuro di aver riconosciuto la stoffa di un campione, sicuro di averlo capito.
René Dreyfus intanto era passato, ma prima di lui volava Chiron, verso la vittoria. Louis Chiron era monegasco, e ora che la corsa stava finendo e il tempo rotolava avanti senza sosta, addirittura salutava la folla urlante dietro le transenne, agitava la mano al Mirabeau in segno di festa e a St. Devote mandò anche un bacio verso gli spalti.
Ma intanto Guy scivolava sulle curve, avanzava ballando il suo tango accelerato tra le salite e le discese della pista. Lo dicono le cronache, per Chiron fu un colpo quando se ne accorse, quando vide la gente agitarsi, non per un saluto ma per la sorpresa, per lanciare l’allarme di quella cosa rossa che gli stava arrivando addosso, quasi tuonando.
Quell’uomo tradì la sua pur consolidata fama di campione, forse si emozionò per il rumore alle spalle, forse fu semplice sventura, ma all’ultimo giro, sulla discesa al Mirabeau dove prima salutava, prese una macchia d’olio e scivolò dritto dentro i sacchi di sabbia. Al traguardo giunse solo Moll e fece appena un sorriso ai meccanici, alla gente. E a Ferrari, che gli correva incontro domandandogli dove diavolo avesse imparato quella curva da pittore, dette una risposta spavalda, degna di chi danza con le macchine a quel modo. “In Africa, da bambino, monsieur, guidando i cammelli”.
Ma fu durante la corsa del Montenero che il ragazzo entrò nel cuore di Ferrari e gli gelò per sempre il sangue per quel che seppe mostrare.
Partito come un razzo dietro a Varzi, suo compagno di squadra, Moll lo infilò all’esterno di una curva come se non facesse altro da tempo. In pochi giri lo staccò di netto, e si parla di Varzi Achille, mica di altri. Successe poi che al ragazzo scoppiò una gomma e dovette rientrare ai box per la riparazione.
Ferrari intanto era diviso tra l’entusiasmo per quel suo nuovo pilota che faceva meraviglie e la preoccupazione per la risposta dell’altro, il campione, teso ed egoista come ogni cavallo di razza. Avrebbe voluto dire qualcosa a Moll ma lasciò stare, la sfortuna lo aveva già ritardato ed è buona norma per un saggio caposquadra non girare troppo il coltello nella piaga.
Ma non calcolò la furia, la voglia di arrivare del ragazzo che ripartì dal box in un momento e dopo un giro fu di nuovo a razzo addosso a Varzi a battagliare. Achille era un fuoriclasse e non era certo disposto a lasciare il passo libero al secondo. Chi vide quei due guidare, quel giorno vide cose belle, il maestro scodare e rubare a fatica lo spazio all’altro pilota che intanto arrivava disegnando traiettorie mai pensate, entrando e uscendo dalle curve senza un errore, senza esitare.
Ferrari allora decise per i due, da caposquadra. Si disse che non è bene rischiare vita e vittoria tra compagni, non c’è morale nel farsi la guerra tra fratelli, questo è sbagliato. Insomma, non era cosa da fare. Così preparò il segnale “rallentare”, convinto di mostrarlo a Guy quando sarebbe passato.
Con questi pensieri e con il cartello in mano vide Varzi arrivare rombando e dietro Guy Moll che lo incalzava. Ma a metà della curva, quando ormai il primo era sfilato, la macchina di Guy iniziò a ballare, partì a trottola in un valzer pazzo, roteando tra la testa e la coda verso lo schianto, ma invece che col corpo irrigidito dal terrore, il ragazzo passò davanti al box in giravolta e girando fece verso Ferrari quasi un saluto: vide il cartello e capì il da farsi e allora con la mano, sempre ballando, lo rassicurò di tutto. Non valeva la pena, certo. Aveva capito. Chiuse il testacoda con un colpo di sterzo e ripartì dritto e tranquillo per finire dietro a Varzi la sua corsa.
Ferrari rimase incredulo al muretto: mai aveva visto fare quelle cose, mantenere la freddezza, la calma e, ancora, la ragione, mentre il mondo ti gira attorno a cento all’ora. Capì, e fu certo della classe da campione, capì cos’era quell’uomo ma nello stesso tempo ebbe un brivido che lo lasciò più triste. Perché il pericolo non stava nella sua bravura, ma nella pochezza degli altri al suo confronto, nel genio con cui disegnava le curve che avrebbe cozzato contro la mediocrità che gli correva accanto.
Con l’animo appesantito per questa sensazione, quasi da padre, Ferrari andò da Guy al box, dopo la corsa. A complimentarsi certo, ma anche a parlare di quello che aveva sentito in fondo al cuore. I meccanici riponevano le cose e l’atmosfera era allegra. Guy, appoggiato con una spalla al muro, li guardava e nella mano aveva una sigaretta, tenuta come un lapis, in punta di dita. Ferrari lo guardò negli occhi e gli disse: “Bravo, ma attenzione a quello che fai perché attorno a te c’è il mondo e il mondo è limitato, fatto di cose banali e spesso cattive. Cerca di considerarlo e di calcolare dove inizia la curva e dove vai a finire, chi hai di fianco, chi ti sta a guardare”.
Moll lo guardò attraverso il fumo grigio che gli girava attorno e fece con la sigaretta un segno vago per l’aria.
“Io faccio solo traiettorie, monsieur Ferrari, e cerco di disegnarle nel modo che mi pare giusto. Appena fatte scompaiono senza lasciare traccia. Come la mia sigaretta. Non posso far altro che girare in questo modo, faccio la mia strada tirando una boccata e dopo lascio andare il fumo libero nel cielo, che vada dove vada.”
Appena poche settimane dopo i piloti erano a Pescara per il Gran Premio, per la Coppa Acerbo, ed era agosto. Guy faceva girare l’Alfa verso Montesilvano, disegnando le sue traiettorie sulla strada. Non si seppe mai come fosse andata, proprio come il fumo del cielo, non si riuscì neppure a seguire le tracce di quell’avvenimento. Rimasero solo le parole confuse di Ernst Henne, che gli era davanti sulla sua Mercedes argento e lo sentì arrivare, sentì la macchina urlare, Guy che lo passava girando su sé stesso. Come fosse in un sogno vide che se ne andava. L’Alfa si rovesciò sul ciglio e il ragazzo si fermò su quella strada, per uno strano destino. Si fermò per sempre a Pescara, proprio dove Blanchot ne aveva parlato.
Ferrari continuò la sua vita di organizzatore, la storia è nota, fece nascere altri piloti e vide altra gente arrivare e andare, e forse si comportò proprio come un padre, anche se qualcuno lo definì un Saturno cattivo. Padre fu davvero di un figlio, Dino, per il quale, abbiamo detto, cessò di fare il pilota con scelta razionale.
Dino era malato e morì presto. Ebbe una nefrite virale che lo tenne a lungo a letto e al suo capezzale il padre lottò con lui per mesi, usando la ragione. Probabilmente si convinse che il figlio fosse come una sua macchina, un suo motore, e fosse possibile aggiustare il meccanismo che aveva solo qualcosa da revisionare. Teneva dei quaderni, Ferrari, su cui fece il programma di cura, su cui riportò i valori e le analisi, compilò liste e diagrammi, tracciò grafici. Disegnò curve.
La sera del 30 giugno del ’56 scrisse un’ultima frase: “la partita è persa”, e chiuse l’agenda come a fine corsa. Annotò la data e mentalmente calcolò l’età: era ventiquattro anni. Come Guy Moll, pensò. La stessa età di Guy.
Forse fu per quel pensiero o per quello che di magico hanno le combinazioni che nascondiamo nella nostra testa, e non vediamo, e non vogliamo vedere ma, uscendo dalla stanza dove Dino giaceva, Ferrari vide appoggiato con una spalla al muro il dottor Santoni, in mano una sigaretta tenuta come fosse un lapis.
In quel corridoio quasi buio, l’ultima luce che entrò dalla finestra colpì il fumo che saliva, e Ferrari vide che salendo ballava, ruotava, in una danza infinita, faceva curve nell’aria, girava, fuggiva e disegnava in cerchi e ghirigori le fragili traiettorie della vita.
Ugo Riccarelli, in “L’angelo di Coppi” (2001)