IMOLA ’82 E DINTORNI
L’attimo è la bandiera a scacchi sventolata il 25 aprile del 1982 sul circuito del Santerno, quell’attimo esatto in cui a Gilles Villeneuve, il miglior pilota della sua generazione, tutto si infrange, a suggello di una crisi professionale e coniugale che in quel periodo aveva trovato una sua definitiva evoluzione. Ogni evento in quelle settimane e in quei mesi di inizio ’82 aveva scalfito i capisaldi della vita di Gilles, che erano la famiglia, l’amicizia e la Ferrari.
Dapprima una vaga sensazione, divenuta certezza, che il grande amore con Joanna, la madre dei suoi figli, fosse giunto al termine, e poi quel tradimento dell’amico compagno di squadra Didì, il pilota franco-friulano sottovalutato e velocissimo, che nel contempo gli aveva mostrato il vero volto della Scuderia: prima la Squadra, poi a seguire, molto a seguire, tutto il resto, lui compreso.
In cosa rimaneva da credere negli ultimi tredici giorni? In nulla, se non nel rancore, nel risentimento e nella vendetta, e quindi nella fine.
Peccato, per l’uomo e per il pilota che, per come guidava, avrebbe convertito al cristianesimo anche i bolscevichi e che era capace di percorrere, nella nebbia dicembrina, il tratto Montecarlo-Bologna in due ore e quaranta minuti.
Era rimasto solo Didì, tormentato dai suoi sensi di colpa, che aveva cercato di prevenire chiedendo scusa, quasi umiliandosi, tre giorni dopo la gara, a Maranello, davanti a tutti nell’ufficio di Enzo Ferrari. Tutto inutile, era tardi, stava calando l’ombra funesta di Zolder, la tragedia che ne avrebbe preannunciate altre; e così la rottura Gilles-Didì si cristallizzò nell’immaginario collettivo, diventando insanabile anche per i posteri.
Impossibile per chiunque reggere questa pressione, impossibile negare un legame di grumo nero di quel nefasto 1982 tra Imola-Zolder-Montreal-Hockenheim. Si narra che in quella inutile, piovosa mattinata del sette agosto, Didì, non più lui dall’otto maggio, prima di salire sull’ultimo abitacolo ferrarista e nonostante l’imminente titolo mondiale, fosse affranto, trasandato, rassegnato fatalmente all’ineluttabile peggio di fronte a quel nubifragio presago di sventure.
E fu un enorme dispiacere, una tragedia collettiva, mica per il mondiale ’82 da vincere in carrozza, ma soprattutto per delle vite volate via così.
Ma il rammarico consolidato nel tempo, divenuto più grande, è che a quarant’anni dagli eventi, si assiste ancora attoniti alla damnatio memoriae della vita privata e sportiva di Didier Pironi, alla sua quotidiana lapidazione postuma: non si può ricordarlo, senza che qualcuno ricorra alla solita deriva di contumelie, retaggio del patologico tifo calcistico della peggiore etnia.
Non bastano le vite di Gilles e Riccardo con il loro carico enorme di castighi, non bastano gli ultimi tre mesi di F.1 vissuti nell’inferno dei tormenti, non bastano le gambe in poltiglia di Hockenheim, non bastano le quasi quaranta operazioni chirurgiche subite, non basta l’invalidità permanente, non basta persino la morte a trentacinque anni su quelle onde che erano le sue nuove curve.
E pare non bastare nemmeno ai diretti interessati, se nel leggere il recente libro di Renata Nosetto, si apprende della telefonata dell’agosto 1987 di Joanna Villeneuve all’autrice, cui veniva comunicata gelidamente la morte di Pironi con la terribile frase, riportata testualmente: “Adesso i conti sono pari”.
Eh no, Joanna, ti sbagli: i conti continuano ad essere dispari, per tutti, e non di poco.