17 gennaio 2013 – Descrivere Mario Andretti, eroe dei due mondi, pilota pluri vittorioso in tutte le categorie dalle Midget alla Formula 1, passando per la Indycar e il Mondiale Prototipi, non è facile. Per raccontare tutta la sua carriera agonistica non basterebbe nemmeno un’enciclopedia. Figlio di emigranti friulani, originari di Montona d’Istria, Piedone, come l’hanno in seguito soprannominato i suoi estimatori per via della sua particolare maniera di schiacciare il gas, è stato il pilota con la carriera più lunga e prolifica di sempre.
I numeri di Andretti sono impressionanti: 879 gare disputate, 111 vittorie e 109 pole position, fanno da corollario a quasi quarant’anni passati sui circuiti di tutto il mondo. Eclettico e poliedrico, ha guidato qualsiasi tipo di vettura adattandosi alla bisogna ad ogni esigenza che si presentava, sempre con grande professionalità. Di lui,Enzo Ferrari, nel suo libro “Piloti che gente” diceva: “Coraggioso e generoso, serio professionista, è Mario Andretti, triestino d’origine, idolo d’America. Salito anche alla gloria di Indianapolis. Per anni fu impossibile averlo in esclusiva, perché guadagnava cifre astronomiche negli Stati Uniti e non sapeva decidersi a riattraversare l’Atlantico. Quando finalmente poté disputare un’intera stagione in Formula 1, non impiegò molto tempo a imparare tutti i circuiti e a risultare fra i primi”. – “A lui ho pensato nel 1977, come pilota del “dopo Lauda” ma, con rammarico di entrambi, non fu possibile. E’ diventato campione del mondo non su una macchina Ferrari e questo dispiace a me e, credo, anche a lui e a suoi tanti sostenitori. Al suo nome sono legate alcune delle nostre più belle vittorie negli anni Settanta”.
Il giudizio del Drake è lusinghiero, ammirato e anche un po’ rammaricato per via di quel Mondiale, l’unico della carriera di Piedone, che l’italo americano conquistò a bordo della fantastica Lotus 79 ad effetto suolo. E sono proprio alcuni episodi di questo periodo, che rivelano il pragmatismo e la determinazione dell’uomo Andretti. All’epoca il suo blindatissimo contratto con la scuderia Colin Chapman, prevedeva infatti che lui Super Mario, fosse dichiaratamente la prima guida. Questo perché, dall’altra parte del box, c’era un compagno di squadra “molto scomodo” che rispondeva al nome di Ronnie Peterson.
Andretti non voleva assolutamente che si ripetesse la medesima situazione che si creò in Lotus nel 1973, quando Emerson Fittipaldi e Peterson, rimasero liberi di correre senza ordini di squadra. Il risultato di questa politica fu alquanto distruttivo, poiché non appoggiando nessuno dei due in particolare, Chapman riuscì a farsi sfuggire il titolo piloti a favore di Jackie Stewart. Una situazione che il pilota statunitense, pretese non si ripetesse. Il 1978, da quanto disse lui stesso in seguito, doveva essere il suo anno. In effetti, c’era tutto perché ciò accadesse. Dalla macchina all’organizzazione, la Lotus era un team vincente e Mario, come suo uso e costume aveva pianificato la situazione in ogni particolare. Pretendeva da Chapman, che il suo compagno svedese, rientrato proprio in quella stagione alla Lotus, fosse dichiaratamente la seconda guida. Un accordo sottoscritto e firmato da Ronnie, che accettava tutto quanto seppure con una certa riluttanza, almeno da quanto si dice. A dispetto di queste clausole, il rapporto fra i due fu vero e sincero, tanto che Andretti soffrì parecchio la scomparsa dell’amico rivale, molto amato anche dal grande pubblico della Formula 1 per via del suo grande talento e della sua simpatia.
Ma per Piedone, la carriera non fu solo tinta di nero Lotus, in quanto il suo nome come ben sappiamo, era legato con un doppio filo alla casa di Maranello con la quale aveva ottenuto prestiose vittorie nel Mondiale Marche. La più spettacolare, resta probabilmente quella alla 12 Ore di Sebring del 1970, che corse inizialmente a bordo di una 512S roadster ufficiale in coppia con Arturo Merzario. I due rimasero in testa a lungo prima che il cambio cedesse di schianto. Tornato ai box, Andretti, stava per lasciare il circuito quando il direttore tecnico della Ferrari, Mauro Forghieri, gli chiese di salire sulla vettura di Giunti e Vaccarella per terminare la corsa. Questo esemplare, era differente perché si trattava della versione coupé, che Piedone era titubante a guidare, non sapendo in che modo era stata assettata dai due colleghi di marca. Alla fine, si convinse e accettò di terminare la gara con quest’altra vettura, che in quel momento si trovava al secondo posto dietro alla Porsche 908 di Steve McQueen, guidata da Peter Revson.
Per la cronaca, Mario, determinatissimo una volta sedutosi nella biposto del Cavallino, guidò come un indemoniato nonostante la vettura non fosse adatta al suo stile, perché a detta sua, quella gara non la poteva vincere un attore che aveva guidato solo per il 10% del tempo. Infatti fin dai primi giri, Andretti fece segnare dei tempi addirittura di quattro secondi più rapidi di quelli di Giunti. In seguito con l’oscurità, i suoi crono erano ancora di due secondi più veloci di quelli che lui stesso aveva ottenuto durante le prove con la versione roadster.
Naturalmente, la 12 Ore, la vinsero Piedone e la Rossa che così si consacrarono eroi in terra d’America. Una vita agonistica intensa quella di Andretti, che giunto negli States nel 1955 a bordo del piroscafo Conte Biancamano con soli 125 dollari in tasca, ha creato dal nulla un grande impero ed è stato capostipite di una delle più importanti famiglie da corsa della storia. Lui ed il fratello gemello Aldo, con i soldi guadagnati lavorando in una stazione di servizio di proprietà di uno zio, costruirono in proprio la prima vettura da competizione nel 1959. A vent’anni, Piedone aveva già vinto venti gare nella serie stock car e dal quel momento in poi, la sua carriera fu un crescendo rossiniano di affermazioni e successi sportivi. Come ad esempio Indianapolis 1969, dove con la mitica “Cenerentola” di Perrault si aggiudicò una fantastica 500 Miglia entrando nella leggenda.
Uomo dinamico e sempre in movimento, si dice sia nato con la valigia in mano, come quando nel 1982 a quarantadue anni suonati, Enzo Ferrari lo richiama in Italia per sostituire per le ultime due gare stagionali l’infortunato Pironi. Andretti arrivò a Linate, si fermò a pranzo a Maranello con il Commendatore e poi dopo, senza nemmeno aver smaltito il “jet lag”, salì sulla 126 C2 siglando il record di Fiorano. A Monza, in mezzo al delirio della folla ferrarista, segnerà la sua ultima pole in F1 a bordo della Rossa, mentre in gara giunge ottimo terzo. Corre anche a Las Vegas, dove si qualifica settimo in griglia, ritirandosi in gara con una sospensione ko. Nel Circus non tornerà mai più, ma la sua carriera americana sarà ancora lunghissima e piena d’emozioni.
Insomma, Mario Andretti è uno che non si ferma mai ed è sempre acclamato dal grande pubblico anche adesso, come quando compare nel ruolo di guest star al muretto della scuderia diretta dal figlio Michael, anch’egli celebre pilota negli States a cavallo tra gli anni ottanta e novanta. Piedone a suo tempo, fu grande amico di Clay Regazzoni, con il quale condivise tanti anni felici quando la F1 era uno sport meno asettico di oggi, dove il rapporto umano era ancora garanzia di signorilità. Un campione totale come abbiamo scritto, perché unico ed inimitabile. E se a settantadue anni, gli chiedete di tornare a calarsi nell’abitacolo di una monoposto di F1, state sicuri che non vi risponderà certo di no, come ha dimostrato la sua esibizione ad Austin lo scorso autunno, quando ha pilotato ancora una volta la mitica Lotus JPS iridata con lui nel 1978. Inossidabile.
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