Up. Ascari merita di stare sempre in testa!
Non ricordo se già postata, in caso non fa male rileggersi queste testimonianze.
Una premessa: Ascari, Clark, Senna.
Tre supercampioni morti in circostanze apparentemente simili, la vettura esce ad alta velocità in punti non difficili. Clark è forse l'unico su cui non circolino voci di errore di guida, visto il tratto praticamente rettilineo affrontato (e la vettura che guidava, non sempre affidabile).
Su Senna, epoca contemporanea, nonostante riprese, telemetrie, studi ecc continuano imperterrite le voci di errore di pilotaggio.
Su Ascari poche voci, riguardanti perlopiù il suo stato psicofisico, ma scavalcate dalla marea montante (forse solo mitologica) dell'uomo che attraversa la pista. Una fine leggendaria, legata alla Cabbala, alla numerologia eccetera. Spesso si è detto che dopo un incidente si debba risalire subito sulla vettura, e così fece Alberto, sfidando lo shock subito, e lo shock doveva essere stato tremendo, se per la prima e unica volta in vita sua superò perfino il tabù della superstizione per rimanerne comunque mortalmente schiacciato.
Chissà che davvero non avesse ancora traumi residui per la solenne nasata contro il volante a Monaco. La fretta a volte è pessima consigliera, anche se fa sorridere dirlo a proposito del pilota più veloce del mondo..
QUELLA CURVA DESERTA IN CUI ASCARI VOLO'
TRENT' ANNI fa moriva sulla pista dell' Autodromo di Monza Alberto Ascari, il più grande pilota italiano del dopoguerra. E' il 26 maggio 1955: nella mattina di primavera il rettilineo dell' autodromo pare che tremi sotto il sole. Alberto Ascari compie uno-due giri al volante di una Ferrari 750. E' uscito dalla curva del Serraglio, imposta la curva del vialone (che da quel giorno si chiamerà Ascari). Dalla tribuna tendono l' orecchio verso un orizzonte di alberi. Il rumore di calabrone del motore di Ascari ha smesso di propagarsi: è diventato un latrato e, infine, un rombo di terremoto che ricade sulla terra. Poi, un palpito di silenzio. Un minuto, cinque minuti. Agghiacciante. Chi corre ai bordi della curva trova la Ferrari rovesciata di lato e Ascari morto. Sull' asfalto il segno sinistro di una frenata. Nessuno là c' era, in pista o fuori. Nessuno ha veduto. I carabinieri aprono l' inchiesta, i periti si pronunciano, il giudice istruttore dottor Armando Zaccaria presenta le risultanze al Pubblico ministero, che, esaminatele, dispone per l' archiviazione. Chi o che cosa ha costretto Ascari alla frenata? Un improvviso ostacolo umano? Un guasto meccanico? Un malore? La morte di Ascari è avvolta dal mistero. Gli avvenimenti sono implacabili. Hanno una memoria che confonde la nostra. Ci superano. Chiedo a Gigi Villoresi, che di Ascari fu l' amico del cuore, se mi può aiutare. Una chioma d' argento, una voce che è una variazione di timbro, d' umore, Gigi Villoresi siede davanti a me, in un ufficio della Lambromotori. Villoresi gestisce appena appena. Le sue mani sono magre determinate esatte. La sinistra è mutilata di una falange. Quella mano ricorda che, nel ' 50, dopo aver vinto in Argentina, a Marsiglia e a Monza, Villoresi fu vittima a Losanna di un grave incidente. "Alberto, lo avevo conosciuto nell' immediato dopoguerra. Mi si era presentato come allievo: un allievo che aveva la finezza del maestro. Non era Varzi, che riduceva a ragione anche l' emozione e nemmeno Nuvolari, che aveva la misura dell' avversario (e del diavolo). Era... Alberto Ascari. Se la sorte non gli avesse teso un agguato tutti avrebbero convenuto su ciò che gli uomini del mestiere già sapevano ossia che Alberto Ascari era un fuoriclasse sulla stessa linea, nella pole position delle eccezioni. Qui, ha ragione Ferrari: nella corsa di testa (Ascari al comando voglio dire) Alberto era inarrivabile: nella bagarre ancora perfettibile. Tre anni e sarebbe stato un invincibile (è inteso, per quanto lo si può essere nello sport in genere e nello sport automobilistico in particolare)". Fuori, il traffico di corso Sempione: Ascari è nato proprio in una casa del corso. Vicinissimo abita la moglie di Alberto, la dolce Mietta. L' atmosfera molto milanese fa tornare Alberto Ascari a fianco di Villoresi. "Vede, Fossati, io sono un vecchio signore (76 anni) che compendia, si dice così? - e Villoresi sorride - Mezzo secolo di automobilismo. Un vecchio signore vestito da pedone. Dai miei ricordi emerge spesso Alberto Ascari. Alla sua assurda misteriosa morte, io ho pensato e ripensato. Ho raccolto la esperienza mia di pilota di Grand Prix, di Mille Miglia, di Rallyes e le voci a cui non s' è voluto, a torto, dare credito. Ebbene io sono convinto che Alberto Ascari non s' è lasciato impaniare nell' intrico di un errore. E neanche credo che, a monte dell' incidente fatale, vi sia come causa prima l' incidente spettacolare di Montecarlo. L' antefatto è il G.P. di Montecarlo. Facciamo un passo all' indietro. Io e Alberto eravamo passati alla Lancia, che aveva costruito una Grand Prix o vettura di Formula uno. Il progettista era Vittorio Jano. Avevamo abbandonato la Ferrari per fatti nostri, che non è il caso di riferire. La macchina di una concezione moderna faticava ad avanzare anche perchè di scena c' era la Mercedes. Nel Gran Premio di Montecarlo, dunque, la D. 50 di Alberto guida la corsa. S' è ritirato Fangio (Mercedes), s' è ritirato Moss, pure Mercedes. Centinaia di braccia si agitano verso di lui. E' in testa. Scivola con lo stile elegante pulito e pur deciso attraverso la chicane, che aveva la funzione di rallentare le alte velocità. Gli si blocca (sembra) il freno della ruota anteriore. La Lancia, con Ascari sopra, devia, fa un tuffo in mare, nel Mediterraneo. "La macchina buca il vetro verde dell' acqua. Gli uomini rana soccorrono Ascari, che è affiorato dal mare mosso a grandissimi occhi di pavone. Non un graffio. Precauzionalmente ricoverano Alberto all' ospedale. "Al suo fianco, Mietta. Alberto scherza, si compiace della sua tecnica di sub, imparata a Santa Margherita. I medici gli consigliano qualche giorno di riposo, ammesso e non concesso che vi sia una forma di choc da superare. Alberto torna a Milano, mercoledì, in macchina. L' indomani è il maledetto giovedì 26 maggio. La domenica si corre il Gran Premio Cortemaggiore per prototipi. Alberto non ha iscrizione. Iscritto c' è, invece, Eugenio Castellotti, un pilota lodigiano che cresce alla sua ombra. "Quel giovedì Alberto mi dà appuntamento a Monza. "Vieni, Eugenio, prova la Ferrari. Vieni anche tu". Io nicchio. Sono in freddo con la Ferrari. Alberto insiste. Mi convince. Siamo a Monza in tribuna. Le prove sono pressochè al termine. Ad un tratto Alberto mi fa: "Io vado al box: e tu?". Io, no ripondo. Ci spettegolerebbero sopra. Sai, la stampa. Dalla tribuna lo scorgo ai box. E mi stupisce vederlo che armeggia sul muretto con il casco, i guanti, gli occhiali di Castellotti. Alberto, lo scaramantico Alberto, superstizioso, che crede in un certo rito: che vede nel suo casco, nei suoi guanti, nei suoi occhiali un particolarissimo importante simbolo propiziatorio e che adesso si serve di una parte del corredo altrui. Incredibile! "Ascari sale sulle "due litri". Parte. Un giro ad andatura ridotta, che rallegra. Poi... poi... il lamento lungo del motore, l' urlo terrificante. Io li ho ancora negli orecchi, il lamento e l' urlo. Abbiamo perduto Ascari. "Subito si dice: Alberto era choccato dal tuffo di Montecarlo. Altri afferma, ad oltre duecento orari, pilotando una macchina che aveva un' aderenza leggermente minore di un grand prix, infilando una curva che a guardarla dal basso sembra fatta di due linee che si congiungono a diversi livelli - una curva che esige il controsterzo - anche un Ascari avrebbe potuto commettere un errore. Io nego lo choc e l' errore. "In un mare di dubbi io sono rimasto un' isola. Sulla pista erano in corso dei lavori. Lei ci metta pure davanti al mio discorso un "pare" alto come questa casa. Un operaio ha attraversato la pista: Alberto ha tentato disperatamente di risparmiare, di evitare quell' ombra lunga, che gli si era improvvisamente parata davanti. La macchina ha derapato: si è capovolta. Alberto è rimasto ucciso. Distrutto dalla paura, dal rimorso quell' uomo avrebbe confidato il suo tremendo segreto ad un prete. Quell' uomo infine si sarebbe ucciso". Le voci hanno preso a rincorrersi, dico a Villoresi. Gli cito le critiche di Olivier Gendebien ad una macchina dello stesso tipo Monza, che provocò un incidente, nel Tourist Trophy del ' 56, da cui il belga uscì a stento. E le osservazioni di Hawthorne, secondo il quale i pneumatici sarebbero stati inadatti così che quando Ascari innestò la quinta marcia, su una fascia di asfalto rugoso, la Ferrari comincò a derapare. Villoresi scuote il capo. "Io sono convinto che il mio amico Alberto Ascari non è morto perchè choccato da un "tuffo" in mare, da un vizio della vettura o dei pneumatici o da un peccato di manovra. La mia tesi si sposa alla voce, a quella voce dell' ostacolo umano". "Ma un segno premonitore, lei, Villoresi, non l' ha mai colto in Alberto?". "Sì, suo padre Antonio, grande asso dell' automobilismo anni venti, è morto a Monthlery. Aveva trentasei anni, come Alberto. E Alberto, nella primavera del 1956, me lo ripeteva: "Io, quest' anno non lo passso, Gigi. E' accaduto anche a mio padre. Trentasei anni, sono della stessa sua classe". Così, Villoresi. Infine, a casa Ascari. Il tono di fondo è borghese: una borghesia, come dire, degna, tratteggiata con discrezione dalla signora Mietta, la moglie del campione. I figli Tonino e Patrizia hanno fatto famiglia: vivono a Varese e a Milano: hanno, a loro volta, tre figli. "Sono nonna di tre nipotine", mi dice. Io sono un poco imbarazzato. "Guardi - mi racconta questa donna meravigliosa - ricordarlo è come farlo rivivere. Io ho passato tutta la vita ad aspettare, in attesa di un annuncio spaventoso che quotidianamente si allontanava, fino a quel pomeriggio, che si è verificato: il 26 maggio 1955. Mia suocera ha perduto il marito ed il figlio: io, il marito. Speranza, malinconia. Quando non lo seguivo facevo la vita di tutti i giorni di una donna qualsiasi. Avevo pregato la portinaia di tenere sempre spalancato il portone, di non socchiuderlo neanche se fosse giunta la cattiva notizia . "Come dolersi di una preoccupazione costante se lui se ne va per le corse, ad ogni rischio, con una serenità perfetta? E non voleva parlare di quello che faceva: o accennava di volo con voce bonaria. Tornava e guardava con quegli occhi da bambino me, Tonino e Patrizia. Hanno scritto che trattava i suoi figli con voluta durezza per non inasprire una sua eventuale scomparsa. Non è affatto vero. Rientrava carico di doni per i due ragazzi che adorava. Mi sembrava la befana. E io mi risentivo anche: capisce, dalla madre loro ricevevano qualche salutare scapellotto, dal padre soltanto strepitosi regali. "Ha ragione Villoresi. Alberto è tornato da Montecarlo in bella forma. Nessuno choc. Riposava dopo i grandi premi fino al giovedì successivo. Indugiava a letto. Quel 26 maggio, lo svegliò, alle 10, Eugenio Castellotti, il suo allievo. Alberto si alzò, mi salutò, dicendomi che sarebbe tornato per l' una. Ero tranquilla. Non portava con sè il suo corredo di pilota. Non lo dovevo rivedere mai più. Al mio ritorno dalle compere, il portone aperto, la casa affollata, la notizia che avrei dovuto correre a Monza perchè Alberto s' era ferito, mi hanno detto la verità. I dirigenti dell' autodromo, il dottor Restelli, il dottor Bertè, amici di famiglia, accennarono alla causa dell' incidente: un guasto, il passaggio di una lepre, di un coniglio selvatico. Non ci ho mai creduto. Un uomo aveva attraversato la pista. "Se Castellotti non gli avesse telefonato, Alberto sarebbe qua, nonno felice. Il povero Castellotti è morto, a 26 anni, in prova a Modena, dieci mesi dopo. L' ingegner Enzo Ferrari, che ci ricorda con affetto, parla dell' automobilismo come di una sua gioia terribile. Il commendator Ferrari ha conosciuto il dolore. Io più semplicemente dicevo ad Alberto che il progresso meccanico non meritava tanti rischi e sacrifici. Alberto mi zittiva perchè al sacrificio dava tono di utilità. Ho proibito a Tonino di correre fino a 21 anni: e ho veduto con piacere che terminati i quattrini, che aveva risparmiato a proposito (perchè non gli avrei passato i soldini per correre) ha smesso. Ora lavora nel motorismo, pacatamente e bene, a Varese. Tonino ha vinto, questo sì, uno choc: la paura di morire come suo nonno, come suo padre a trentasei anni. Quanto ad Alberto, il suo ricordo è l' ospite, il commensale di questa casa: rivedo le due lunghe tracce nere, di gomma seguite da un mistero, che l' inchiesta ufficiale non ha svelato: la causa, un ostacolo umano, appunto". Un uomo distratto, mi ha spiegato uno psicologo, s' è veduto piombare addosso un proiettile rosso, che non ha continuato la sua corsa perchè qualcuno (che ha appreso essere il due volte campione del mondo Alberto Ascari) l' ha frenato e deviato a prezzo della vita. L' immagine nitida di quell' ordigno che gli si rovesciava sopra deve essersi trasformata nella mente di quel disperato in un ricordo di nebbia, di ululati strazianti fino alla pazzia. Perduto il suo più grande avversario, Fangio scriverà: "Io camminavo quietamente da solo pensando a quanta parte Alberto aveva avuto nella mia vita e cercavo di vincere quello strano e irrazionale senso di colpa che opprime molti piloti quando uno della loro cerchia muore in pista. Io non sono in grado di spiegare sentimenti del genere. So solo dire che li provai spesso, troppo spesso, purtroppo".
di MARIO FOSSATI
26 aprile 1985 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/04/26/quella-curva-deserta-in-cui-ascari-volo.html