Curvare con una “wing-car”
Parlare di tecnica della curva sarebbe una truffa: piuttosto eravamo di fronte ad una vera violenza: agli uomini, ai materiali, alle leggi della fisica.
Ecco cosa accadeva: tu prendevi la tua curva stringendola il più possibile e, all'entrata, quando ancora la macchina sfuggiva alla forza centrifuga, sterzavi le ruote come si doveva. A dire il vero non c'era nient'altro da fare. L'angolo di sterzo doveva essere valido per tutta la curva: quando la forza centrifuga pesava con tutta la sua forza sulla vettura, non potevi praticamente più girare il volante. Se tentavi di correggere la traiettoria, la vettura, stretta come in una morsa, cominciava a singhiozzare, rompendo la tenuta stagna delle minigonne: l'aerodinamica non lavorava più correttamente, non ci si poteva più fidare della macchina e molto probabilmente si usciva. In breve, arrivavi alla curva, sterzavi una sola volta e doveva funzionare. Se t'eri sbagliato, era meglio alzare il piede e frenare che tentare di correggere l'errore. Ciò aveva certo conseguenze più gradevoli e si poteva riprendere il bandolo poiché se le minigonne si fossero alzate o se la vettura avesse urtato i cordoli la situazione si sarebbe fatta critica.
Lo stile di una volta era del tutto differente. Quando non avevi sterzato a sufficienza nell'impostazione, giravi semplicemente il volante ancora un po' e se il retrotreno prendeva ad agitarsi, si controsterzava e tutto era sistemato. Con una “wing-car”, invece, occorreva sforzarsi di determinare molto precisamente l'angolo di sterzo ottimale, poi la miglior ricetta era accelerare a fondo. L'aerodinamica funzionava meglio più aumentava la velocità e abbiamo visto il perchè. Il pilota se ne accorgeva quando, girando tranquillamente su un circuito, la vettura gli dava l'impressione di tenere male la strada. Più andava veloce, più la vettura era bloccata al suolo e tuto funzionava per il meglio. Noi dovevamo accelerare il più possibile all'entrata della curva, ovvero esattamente il contrario di quanto si doveva fare un tempo. Se la situazione si faceva critica, bisognava dominarsi e spingere ancora di più sull'acceleratore. Alzare il piede o correggere la traiettoria con il volante, non avrebbe prodotto che noie, solo l'accelerazione aiutava. Ci si poneva una sola domanda: dov'era mai il limite, quando si sarebbe usciti di strada? Nessuno lo sapeva. Potevamo affrontare le curve ad una velocità del 30 per cento superiore a prima dell'avvento delle “wing-car”. Al giorno d'oggi ci avviciniamo nuovamente al limite estremo ma disponendo di numerosi mezzi correttivi con l'accelerazione e/o con il volante.
Un tempo, se si fosse raggiunto il vero limite, ci si poteva solo aspettare di volare nel paesaggio. Un pilota in superforma, che avverte tutto con sicuro istinto e grande preveggenza e che ha in più un coraggio da leone, puà riuscire a guidare un millimetro oltre quella frontiera, ma non più di una volta su dieci. In fin dei conti, era impossibile pilotare così, poiché il minimo incidente sfociava in un infortunio.
I costruttori avevano naturalmente trovato un ottimo argomento. Secondo loro, grazie ai dispositivi aerodinamici, le distanze di frenata erano state sensibilmente accorciate, il che era vero, in condizioni normali: il nostro modo di frenare sarebbe una volta stato improponibile. Oggi non si può più che contare sul coefficiente d'attrito dei pneumatici per fermare il veicolo, mentre prima, sulle “wing-car” si usava tutta l'aerodinamica. Ma quante volte se ne usciva lasciando intatta l'aerodinamica della vettura? Ci sarebbe servito più campo libero e, soprattutto, nessun grosso ostacolo a perturbare l'azione delle minigonne.
In generale il primo testa-coda accadeva vicino a un cordolo e una volta passati lì sopra, le tue minigonne erano completamente strappate, l'effetto suolo annientato e tu andavi a raggiungere le margherite in un volo senza fine...
Non si poteva allora più parlare di arresto rapido perchè l'aerodinamica non funzionava assolutamente più. Altro aspetto caratteristico delle “wing-car” era la forza centrifuga, con il pilota costretto a sopportare un carico al limite sui circuiti veloci. L'effetto di aspirazione della vettura si opponeva alla forza centrifuga e poiché il corpo del pilota era inchiodato alla vettura con cinghie molto strette, solo la testa doveva affrontare queste forze.
Prendiamo, per esempio, Jacarepaguà, il circuito di Rio de Janeiro, che è molto veloce. Quando si faceva un giro in 1'35”, non c'erano, per così dire, problemi. Ma quando ci si avvicinava a degli 1'31” o 1'30”, dopo tre giri non si riusciva più a tenere la testa dritta: circa a metà della curva, la testa trovava un appoggio sulla carrozzeria, una reazione che divenne, a poco a poco, completamente automatica. Quando si entrava in curva, la testa si ribaltava sul fianco e andava già bene se vedevi ancora la carreggiata, raddrizzandoti solo all'uscita della curva stessa. Era ancora accettabile. Quando però la fatica cominciava a farsi sentire, non ci si limitava più a questo ciondolio, si aggiungeva una rotazione: come se fosse stata schiaffeggiata dal vento la tua testa non era più girata in avanti ma inclinata verso il basso. L'angolo di visuale risultava così limitato: vedevi la tua coscia, la leva del cambio e un pezzetto di strada passare sotto i tuoi occhi ma non vedevi più l'interno della curva. Contro tutto questo c'erano solo due rimedi: rallentare o abbandonare.
L'intensità incredibile di questa forza, la constatammo quando Nelson Piquet, vincitore del GP del Brasile 1982 a Rio, non poteva più dominare la sua testa verso la fine della corsa: in ogni curva veloce ciondolava completamente sul fianco e sul podio non riusciva più a stare in piedi...
dal "mio mondiale turbo". Amen