da Mclaren7C » 16/01/2011, 10:47
Posto l'inserto speciale su AS n. 51-52 del 2010 dedicato ad Hunt.
JAMES HUNT
ESTROVERSO, ECCESSIVO, IRRIVERENTE, TALENTO ECCELSO, VINSE IL MONDIALE 1976. QUELLO DEL RIFIUTO DI LAUDA
di Guido Schittone
IL PILOTA
Grande sulla McLaren
TUTTA LA SUA CARRIERA E’ BASATA SUI 49 GP DISPUTATI DAL 1976 AL 1978. POI, CON LA WOLF, IL RAPIDO DECLINO.
Era talento allo stato puro, per questo era difficile riuscire ad ingabbiarlo in uno schema, in una classificazione professionale. Da James Hunt ci si poteva attendere di tutto: il capolavoro o la corsa anonima perché non aveva voglia di pilotare o aveva fatta troppo tardi la notte prima del Gran Premio. Per esprimere il massimo James aveva bisogno di gente fidata accanto, di persone con le quali condividere anche il post qualifiche e il post corsa. Sentirsi in famiglia. Per questo il suo ricordo è legato quasi più all’epoca della Hesketh e della amena compagine che faceva capo all’altrettanto stravagante Lord Alexander. Quando accadeva era difficilissimo contrastarlo. Ha vinto molto meno di quanto avrebbe potuto. Però nelle sue dieci affermazioni iridate, nel breve volgere di due stagioni, non c’è mai stato nulla di banale o fortunato. Ognuna portava il suo imprimatur. Hunt dava spettacolo, era fantasia costruttiva, quindi concreta, che si confrontava con il pragmatismo assoluto di Niki Lauda o le gare spesso sopra le righe di Ronnie Peterson. Hun aveva paura, non lo negava. Prima delle gare vomitava l’anima non solo per gli stravizi della notte precedente ma per la tensione, per il nervosismo. Correre era per lui il modo di esorcizzare il non amore per ciò che faceva e forse per tracciare dalla sua monoposto al mondo esterno il filo sottile dell’equilibrio sopra la follia, ovvero la vita.
In F.3 lo definivano “the shunt”, lo schianto. Una volta salito in F.1 quella fama si spense ben presto perché, in un’epoca cruenta, Hunt ebbe pochi incidenti da rammentare. Venne coinvolto, l’11 settembre del 1978, nell’ammucchiata che causo la morte di Ronnie Peterson a Monza. Fu l’indiretto responsabile di quella carambola e per difenderlo fu preferito, da parte dei suoi colleghi, immolare la figura di un pilota allora alla prime armi, Riccardo Patrese. Hunt è stato velocissimo fino alle sue ultime apparizioni. Anche quando guidò la Wolf nelle prime corse del 1979, perché la storia va riletta e i suoi tempi di qualifica e alcune esibizioni furono all’altezza della fama. Eppure non amava più pilotare,, sforzarsi di risolvere le magagne della vettura. Guardandosi alla specchio capì che correre era diventata una sofferenza per lui che, con lo sguardo fisso verso un punto indefinito dell’orizzonte, aveva vissuto questo sport come insopportabile peso psicologico, un lavoro nel quale era entrato quasi per caso e che mai aveva realmente amato. Smise di correre dopo aver fatto segnare il decimo tempo a Montecarlo, nel 1979 e da quel giorno James “the shunt” non salì mai più su un’auto da corsa.
IL PERSONAGGIO
Crash, birra e talento
RIBATTEZZATO “SHUNT” – SCHIANTO – PER GLI INCIDENTI IN F.3 DIVENNE GRANDE GRAZIE A LORD HESKETH
Nelle viuzze del Principato di Monaco, nel 1974, un van bianco esponeva adesivi e t-shirt del team Hesketh. I venditori indossavano i completi del team più raffinato, simpatico e fuori dalle righe di quella che era la F.1 di allora. Ragazzini si accalcavano, pagavano quanto dovuto e tornavano a casa orgogliosi di una maglia bianca, con un orsacchiotto giallo dipinto, l’Union Jack sul casco bianco. All’epoca non era una squadra da primo posto ma stava crescendo in modo importante, proponendo uno stile diverso da quello spesso ombroso, triste e cupo dei grandi team. James Hunt ne era il pilota. Alto, biondo, con i capelli lunghi da paggetto, occhi azzurri, dinoccolato, vestito sempre in modo particolare, fuori dagli schemi, divenne l’idolo di una generazione. Donnaiolo, bevitore, dalla voce profonda e la lingua senza peli, spesso imbarazzante perché così diverso da tutto il resto, rappresentava la perfetta sintesi in quello che era il mondo di allora: pop art, sesso, forse droga e rock&roll, e infine pigiare forte sull’acceleratore.
Quando iniziò a correre, con una Mini, e più tardi in F.Ford 1600 con telai Alexis e Merlyn, nessuno avrebbe scommesso una sterlina su di lui. Nemmeno in F.3, nei primi anni, nonostante due vittorie internazionali a Rouen e Zolder, perché il vizio e forse vezzo di Hunt era di vanificare l’enorme potenziale con errori grossolani che davano il via a incidenti creunti e spettacolari. Gli affibbiarono il soprannome di “shunt”, che faceva rima con Hunt e stava per “schianto”, e lui se lo portò appresso. Tanto sapeva che le corse erano per trovare un se stesso, per sperimentare cos’è la paura. Non amava correre, non amava guidare, eppure divenne uno dei più grandi piloti di ogni epoca. Fu Lord Alexander Hesketh, il suo alter ego, il suo specchio più pragmatico, comprenderne le qualità. Da allora divennero inseparabili, furono l’allegra brigata dell’automobilismo. Una vita da consumare tra feste e donne, artisti, eccessi e automobili per vincere. Lord Hesketh si convinse delle potenzialità di Hunt dopo che il ragazzino, nel 1973, giunse terzo alla Corsa dei Campioni di Brands Hatch con una Surtees noleggiata per l’occasione. Gli costruì una squadra attorno: Harvey Postlethwaite come ingegnere, un telaio March e via verso la gloria. Quella March così veloce nel 1974 si trasformò nella sua logica conseguenza: la prima Hesketh, la 308, perché Postlethwaite aveva genio e non si accontentava di gestire una vettura ma la modificava, ne cambiava i connotati. Fino ad arrivare a concepire la sua prima autentica vettura. Nel 1975 per Hunt giunsero il trionfo nel Gran Premio d’Olanda (resterà l’unico per la squadra Hesketh), il quarto posto nel mondiale e la chiamata della McLaren.
Nel 1976 il titolo iridato, quello all’alba al Fuji. Un campionato comunque strameritato perché nel corso dell’anno la M23 di James Hunt aveva lasciato per strada i punti del successo nel Gran Premio di Brands Hatch a causa dell’esclusione ingiusta, e nel complesso era stata l’unica in grado di spezzare l’egemonia della Ferrari di Lauda. Pilotare lo spaventava, ma sull’allagato asfalto di quella corsa al Fuji rimasta nella storia giunse terzo, mentre il suo rivale disse no, ammise di non sentirsi in grado di rischiare. Fu il giorno del suo campionato del mondo. Grandissimo pilota, James Hunt può essere “letto” attraverso varie ottiche. Ma come fosse campione nessuno può metterlo in dubbio. Lo dimostrò nel 1977, anche se non riuscì a ripetersi, con una vettura non eccezionale. Vinse in tre occasioni in quella stagione, nell’anticamera di un finale di carriera che sarebbe arrivato per stanchezza al Gran Premio di Montecarlo del 1979. Quando ormai le magliette Hesketh erano esposte nelle bacheche dei collezionisti e i piloti iniziavano a rincasare prima ben prima dell’alba.
L’UOMO
Sempre in cerca di vita
PLAY BOY, AFFAMATO DI SENZAZIONI, VOLEVA UNA VITA SPERICOLATA E L’HA AVUTA. E’ MORTO D’INFARTO A 46 ANNI
Cinquemila donne, quasi un primato. James Hunt era così, ultimo esponente di un automobilismo nel quale il professionismo veniva vissuto come grazia ricevuta, dove ci si divertiva e si provava il piacere del vivere più del correre. Intensamente, bruciando tutto, sfiorando la miseria vera, quella che ti fa caracollare per le strade e chiederti perché si è crollati così. Sulle cause, non ancora del tutto chiarite, della morte del campione del mondo del 1976 ci sono mille illazioni. A noi piace pensare a una morte dolce nel sonno, a un chiudere la finestra del giorno e ad accettare questa come pura e semplice parte della vita stessa e non conseguenza. Era il 15 giugno 1993, il suo corpo venne ritrovato immobile per un attacca cardiaco. Non aveva ancor 47 anni. Di sicuro James Hunt è stato ubriaco di vita. L’ha ricercata in tutte le sue forme, non solo negli autodromi o dentro l’abitacolo di una monoposto. Nell’ultima biografia uscita da poco in Gran Bretagna gli aneddoti sul biondo scavezzacollo della Formula 1 si sprecano. Patrick Head lo scoprì con la tuta abbassata assieme a una ragazza giapponese in un angolo dei retrobox del Fuji poco prima che iniziasse il Gran Premio decisivo per la sua carriera. Altri sostengono che nei suoi voli intercontinentali ed europei Hunt sia riuscito a far sue 33 hostess della British Airways. D’altronde piaceva alle donne e le donne piacevano a lui. Il suo matrimonio con la splendida Suzy Miller fece scalpore. Fu un amore travolgente, bruciato come tutte le cose di James nel breve volgere di un anno, quando la donna lo mollò in asso perché stanca dei troppi tradimenti per poi, più tardi, diventare la compagna di Richard Burton, unno dei grandi attori del’epoca, amore di un’esistenza per Elisabeth Taylor. Fu l’inizio della fine delle fortune economiche del biondo campione, che entrò in profonda crisi psicologica e che da quei giorni non riuscì più a riprendersi, iniziando discesa ripida, di quelle che portano in un tunnel dal quale non si vede la luce.
Ha vissuto al massimo James Hunt, pigiando forte sull’acceleratore dei sentimenti e della sperimentazione su se stesso. Un’esistenza da poeta contemporaneo spesso non compresa, contestata o circoscritta con gli scuotimenti di testa che liquidano le personalità complesse, quelle non allineate, in realtà un bene prezioso. Non ha lesinato le giornate alcoliche – incalcolabile il numero di birre bevute il giorno del matrimonio – non si è risparmiato nell’ansia di un vita che per essere acchiappata bisognava vivere momento per momento. Uomo di salti verso le stelle e relative brusche cadute, Hunt non ha mai perduto nemmeno per un secondo la dignità, il decoro.
Aiutato dagli amici, rimase nell’ambiente come telecronista, voce tecnica per i commenti della televisione inglese. Un posto che gli serviva per tirare avanti, per osservare con quella sua aria un po’ stranita il cambio generazionale di un mondo ormai molto diverso da quello che aveva conosciuto. Dove professionismo significava spesso rinunciare alla propria personalità, dove di romantico restava ben poco. Un mondo nel quale James Hunt, immenso campione di una stagione, non riusciva a specchiarsi e riconoscersi.
